giovedì 24 dicembre 2015

La terapia dell'incarnazione

Nella medicina moderna è fondamentale tenere in considerazione il concetto di persona come unicum perché il malato non è un insieme di organi, ma è un uomo con una storia, con proprie scelte e priorità, che il medico deve rispettare e aiutare a mantenere e a sviluppare.
Quando, però, il concetto di persona come unicum viene travisato, è una vera e propria violenza fatta all’individuo.
Un esempio di questo si può riscontrare nella terapia per la riabilitazione delle persone cerebrolese, promossa dal medico americano Glenn Doman.
Questo metodo richiede al paziente di concentrarsi in maniera totalizzante sul proprio limite fisico, eseguendo esercizi molto impegnativi che occupano tutta la giornata e richiedono un grande sforzo mentale e fisico. Il problema di questa terapia è innanzitutto la quantità di tempo richiesta, che impedisce di svolgere altre attività e di avere altre relazioni, quindi di vivere.
La mentalità che sta dietro a questo metodo rischia di essere pericolosa, perché vorrebbe annientare i deficit della persona, ma inevitabilmente elimina anche il suo vissuto, la sua storia di diversità, quindi la sua originalità.
Fermo restando che la cura del proprio corpo è un dovere e un diritto della persona con deficit, non deve però diventare un’ossessione.
In questo caso si può vedere un’analogia con i disturbi alimentari come l’anoressia, in cui ci si concentra in modo ossessivo sul proprio corpo e sul rapporto con il cibo e con la bilancia. Il problema fondamentale, in entrambi i casi, è che si assolutizza una sola dimensione della persona senza tenere conto dell’unicum.
Il natale ci ricorda l’incarnazione del Figlio di Dio, il Suo farsi uomo in un corpo. Questo è la prima fonte della dignità e del rispetto che si deve a ogni corpo umano.
Il logos, incarnandosi, ci mostra che il corpo non è una prigione dell’anima, ma è la sua abitazione, di cui bisogna avere cura.


Buon Natale a tutti

giovedì 3 dicembre 2015

Centro e periferia?

Il viaggio del Papa in Africa considerato da tutti a rischio ha portato invece alla luce una realtà scomoda,ma ormai impossibile da nascondere.
Il centro del cristianesimo non è più l’Europa o il nord del mondo, ma sono l’America latina, l’Africa e l’Asia dove i cristiani sono in minoranza, ma proprio per questo hanno quell'entusiasmo e quella credibilità che in Europa sono andati persi.Non a caso c’è sempre più agitazione nella società cosiddetta cristiana o che ama definirsi ancora cristiana.
Il Papa parla sempre del centro e delle periferie, ma forse questi concetti non si adattano a una religione come quella cristiana. Il cristianesimo non è un imipero che si espande da un centro verso nuove periferie, ma è una comunità in cui l’unico centro è Cristo, che è presente in ogni persona credente e anche in quelle non credenti, anche se loro non lo sanno e non ci credono.

Da altra parte Gesù stesso è nato,vissuto ed è morto in periferia e il Suo messaggio si rivolge a uomini e donne di periferia, ma prima o poi siamo tutti uomini e donne di periferia così come possiamo diventare centro.

giovedì 26 novembre 2015

Diverse diversità

Oggi viviamo in un mondo in cui diverse culture e diverse religioni si incontrano e convivono nel medesimo luogo; questo può portare o alla diffidenza e alla paura o alla scoperta e al dialogo .L’importante è che non si abbia paura della diversità in sè e che non si cerchi di omologarle, annullando le caratteristiche peculiarie di ognuno.
Ci sono anche vari tipi di diversità corporee ma non tutte sono vissute in maniera negativa; ad esempio la differenza tra uomo e donna non solo è apprezzata, ma è fondamentale.

Invece la diversità come mancanza di qualche cosa che si ritiene essenziale è quella che ci fa paura, che provoca commozione e compassione. L’handicap è una diversità che viene percepita come mancanza di qualcosa di importante per la vita di una persona, ma bisogna chiedersi se per quella persona quella mancanza è proprio così negativa.

giovedì 19 novembre 2015

Nel mondo ma non del mondo

Luca 19,11-23

12 Disse dunque: «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. 13 Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. 14 Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un'ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi. 15 Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16 Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. 17 Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. 18 Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine.19 Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città. 20 Venne poi anche l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto; 21 avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato. 22 Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23 perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei riscosso con gli interessi.

In questa parabola i servitori sono chiamati a convivere con persone che odiano il loro padrone ed a investire i loro talenti proprio in questo contesto. Credo che sia un po’ la condizione attuale dei cristiani; anche adesso Gesù sembra lontano da questo mondo e ormai c’è un clima di indifferenza o di ostilità verso i suoi servitori.
Dobbiamo perciò passare dalla logica del ragionamento a quella dell’affidamento, che non va contro la ragione , ma la supera.

In fondo è sempre stato così : i cristiani sono sempre stati nel mondo, ma non del mondo.

venerdì 6 novembre 2015

Unità nella sofferenza e nella gioia


L’unità psicofisica è il centro dell’individuo, della persona.
Molte esperienze della felicità, ma anche della sofferenza, sono esperienze dell’unità psicosomatica. Ad esempio le varie espressioni artistiche come la danza e la musica coinvolgono sia la dimensione del corpo che quella della psiche. La nostra vita quotidiana è piena di momenti in cui cerchiamo, anche inconsapevolmente, qualche forma di unione tra le nostre diverse componenti: durante una cena con gli amici vengono coinvolti tutti i sensi e il nostro essere si apre alla condivisione. Ciò che unisce non è  il bisogno di mangiare, ma lo stare assieme con persone con cui vogliamo condividere la nostra gioia e i nostri problemi.
I momenti di gioia possono essere momenti di unità, ma anche quelli di sofferenza lo possono essere. Un’unità dolorosa può avvenire, ad esempio, in occasione della perdita di una persona cara, per la quale tutto il nostro essere soffre. Se questa perdita è vissuta non nella solitudine, ma circondata da amici che magari non sentivi da anni, può essere un momento di condivisione del dolore.

La vera sofferenza è proprio quella che viene dalla solitudine, dal non avere qualcuno da amare e per cui lottare nella propria vita; questo è il dolore più profondo causato dalla divisione dagli altri.

mercoledì 28 ottobre 2015

Uomini e macchine



Le diverse parti che compongono l’uomo  per comodità vengono studiate singolarmente: la medicina studia il corpo, la psicologia la ‘psiche, la teologia lo spirito. Questa divisione è stata l’inizio dell’epoca illuministica e ha portato a grandi progressi, ma anche a considerare l’uomo come una macchina, anzi peggio perché almeno un meccanico la macchina la conosce interamente. A questo proposito  ricordiamo il celebre Trattato delle sensazioni di Condillac, in cui l’uomo è paragonato a una statua che pian piano scopre i propri sensi, uno alla volta come fossero parti completamente separabili.         
 Non si può invece fare a meno di considerare l’unità psico-fisica, senza rinnegare tutti i progressi che sono stati raggiunti con la specializzazione delle diverse discipline. Infondo proprio il progresso delle conoscenze scientifiche ha riportato alla luce in questi anni, il fatto che l’uomo è un’unità e che per curare anche solo una parte del corpo bisogna tenere conto di tutto l’organismo.

martedì 7 luglio 2015

E pensare che siam piccoli, piccoli...così.

Non temere piccolo gregge perché al Padre vostro è piaciuto di dare voi il regno (Lc 12,36). "Non temere" è sempre la prima cosa che Dio dice all'uomo, per esempio quando l'angelo saluta Maria. Quindi Gesù, Figlio di Dio in un certo senso si presenta a noi con questo invito a "non avere paura" della nostra piccolezza, ma anzi a vederla come una opportunità, perché a Dio è piaciuto di rivelare la sua grandezza proprio al piccolo gregge.
Questa è la scelta di Dio, che è presente in tutta la storia della salvezza così come è narrata nella bibbia.
Cominciando da Abramo e Sara che erano piccoli in quanto non avevano figli ed erano troppo vecchi per averne, Dio sceglie proprio loro per dare origine al suo popolo. Così Dio sceglie Giacobbe che è il fratello più piccolo; sceglie Davide a preferenza dei suoi fratelli più grandi, ecc...
In alcuni passi questa scelta viene espressa in modo assolutamente chiaro.
e nella prima lettera ai Corinti dove San Paolo afferma:
"Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono... (1Cor 1,27-28)"
Abbiamo visto che Dio sceglie i piccoli, e questo in genere si sa è un dato di fatto abbastanza acquisito, ma di solito si pensa che Dio è grande. Nel credo diciamo "Credo in Dio Padre onnipotente creatore del cielo e della terra" e questo è vero, ma a volte la nostra idea di Dio si ferma lì, invece il Dio cristiano non si ferma nella sua grandezza, ma nell'incarnazione del Figlio diventa piccolo come un uomo e anche dopo la sua risurrezione resta uomo con le ferite della croce.
Quindi in un certo senso anche Dio è piccolo come noi. Lui lo è per scelta non per natura, noi lo siamo per natura e possiamo assumere questa piccolezza per scelta, come diceva il vangelo di oggi:
"In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.(Mt 18,3-4)"
Per questo pensare alla nostra piccolezza non deve essere motivo di depressione o di scoraggiamento, ma può diventare motivo di gioia perché siamo piccoli così come Dio si è fatto piccolo.
Guardando le stelle si pensa
 al salmo 8 :
"Se guardo il cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai creato, che cos'è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo, perché te ne curi?".
In fondo basta alzare gli occhi per rendersi conto della nostra nullità.
Gesù, proprio per essersi fatto piccolo e debole fino alla morte è stato esaltato e risuscitato e anche noi possiamo avere un destino simile al suo se accettiamo la nostra naturale piccolezza e fragilità

BUONA ESTATE A TUTTI!

mercoledì 1 luglio 2015

Forza Ettore!

Ho sempre ammirato molto la figura di Ettore e mi ha sempre fatto riflettere soprattutto il suo duello con Achille. Nello scontro finale l'eroe troiano avrebbe meritato di vincere, ma Achille oltre al fatto di essere invulnerabile, ha dalla sua parte la dea Atena che lo aiuta in maniera decisiva e ha anche le armi di Efesto che lo proteggono dai colpi del nemico.
Ettore rappresenta dunque l'eroe che lotta invano contro il destino e si trova in condizioni avverse di handicap, nel senso letterale del termine, cioè lo svantaggio iniziale.
Per fortuna in alcuni casi gli Ettore di oggi vincono contro Achille e tutti i suoi aiuti, ad esempio nel mio caso posso dire di aver vinto qualche battaglia come il raggiungimento della laurea e ora l'insegnamento, nonostante alcuni ostacoli che la società pone alle persone con deficit.
Quindi....forza Ettore! 

mercoledì 3 giugno 2015

Regresso o evoluzione?

Se non c’è qualche idea di trascendenza l’uomo rischia di fare la fine descritta nella maglietta: un regresso. Se infatti l’evoluzione è l’unica spiegazione dello sviluppo umano niente impedisce di tornare al punto di partenza. Non metto in dubbio la teoria dell’evoluzione, ma questo processo non può essere stato una semplice casualità: gli scienziati dicono che ci sono dei momenti cruciali che non hanno ancora una spiegazione scientifica, quindi è successo qualcosa di strano e inspiegabile.Infatti tra tutte le specie di scimmie solo noi ci siamo evoluti, mentre i nostri cugini scimpanzé, che hanno il 98% del DNA in comune con noi, sono rimasti scimmie. Alcuni scienziati spiegano l’evoluzione umana facendo riferimento a un cambiamento climatico che avrebbe costretto le scimmie a scendere dagli alberi e a camminare in modo eretto. Resta il fatto che il cambiamento climatico è avvenuto per tutti, e quindi ci deve essere stato qualcos’altro che ha permesso la nostra evoluzione. Per un credente tutto ciò rientra nel disegno di Dio, per un non credente una possibile spiegazione è il caso.

(immagine tratta da http://www.spreadshirt.it/magliette+nerd)

mercoledì 27 maggio 2015

Mille fili mi legano qui




Il libro di Silvia Bonino Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia. (editrice Laterza Bari 2006) presenta alcune osservazioni interessanti.
L’autrice afferma :
In ogni caso nella malattia come in ogni altra attività umana, cognizione ed emozione, pensiero e affetti, corpo e mente sono inscindibilmente coinvolti, ed è solo per chiarezza di analisi che essi vengono distinti. [...]
Per gli stretti rapporti esistenti tra psiche e corpo, un più elevato adattamento psicologico comporterà anche un migliore adattamento sul piano fisico. In altri termini, chi non rinuncia a vivere e a crescere nonostante la malattia, ha anche maggiori probabilità di stare meglio fisicamente.
Questo non significa che sia sufficiente la forza di volontà per guarire dalla malattia, alla base di questa concezione vi sarebbe un concetto di unità psicosomatica sbagliata: mente e corpo si influenzano a vicenda, ma non si può parlare di un’unità in senso deterministico.
La malattia cronica deve essere curata tenendo conto dell’unità psico-fisica e anche dell’obbiettivo che il paziente ha nella sua vita. Per esempio io faccio logopedia per parlare meglio, per poter dettare ai miei collaboratori, mentre muovere una gamba a me serve meno, perché non è l’obbiettivo della mia vita, mentre potrebbe esserlo per un altro.

mercoledì 6 maggio 2015

Il circo della farfalla


Per leggere questo pensiero incompleto, vi invito a guardare il video su youtube "Il circo della farfalla":
https://www.youtube.com/watch?v=y7inI8r1MFg.


Quella proposta dal video è una visione della disabilità indubbiamente positiva, perché rifiuta ogni atteggiamento pietistico e mostra invece che le persone disabili devono essere spronate a fare un cammino per tirar fuori le proprie potenzialità anche quelle che non credono di avere, ma che invece hanno.
Un altro aspetto importante, messo in evidenza dal video, è la presenza in ognuno di un limite che però può essere trasformato: ognuno dal bozzolo può diventare farfalla; come avviene per Poppy l’acrobata che nonostante l’età si esibisce ancora o per la prostituta rimasta incinta che diventa ballerina nel circo. Tutto dipende dall’incontro con qualcuno capace di vedere la bellezza e le potenzialità nascoste, in questo caso Méndez il direttore del circo della farfalla. Questo video è anche una metafora che parla di Dio: la scena in cui Méndez si inginocchia davanti a Will e gli dice “Tu sei magnifico”, può essere un modo di parlare dell’amore di Dio per la sua creatura:
"tu sei prezioso ai miei occhi,
perchè sei degno di stima e io ti amo" (Is 43, 4).
L'uomo però a volte reagisce a questa vicinanza, a questo sguardo che rivela ciò che la persona è veramente nel profondo, con il rifiuto proprio come Will sputa in faccia a Méndez. Qui si può cogliere un'analogia con la passione di Gesù.

Questa rappresentazione della disabilità è anche però un po’ violenta perché il protagonista  è solo, non ha una famiglia, o meglio la sua famiglia è il circo. Si deve sottoporre a prove molto dure e umilianti, faticose anche dal punto di vista fisico (quando ad esempio deve attraversare il fiume). Il rischio di questa rappresentazione è di far pensare che il disabile per valere debba essere necessariamente un “vincente”, ovvero fare qualche cosa di straordinario: questo è il tipico stile “americano”; è invece più completa una visione della disabilità che valorizza la persona anche quando è “perdente” o “normale”.

mercoledì 29 aprile 2015

Le due bandiere
Nel’uomo ci sono due forze presenti contemporaneamente, sta alla libertà umana scegliere quale seguire per dirigere la propria vita.
Come nella “meditazione delle due bandiere” proposta da Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali(136-137): l’esercitante deve scegliere tra il campo di battaglia di Cristo e quello di Satana che Ignazio chiama “il nemico della natura umana”. La scelta avverrà considerando i discorsi fatti dai due avversari: il nemico fa un discorso che appare speranzoso e allettante, ma in realtà ha lo scopo di trascinare l’uomo nel’angoscia e di dividerlo da Dio. Cristo al contrario invita l’uomo a seguirlo nella sua scelta di vita, nella via della povertà e dell’umiltà, con un discorso che può apparire privo di speranza e angosciante, ma che in realtà apre l’uomo alla libertà e alla comunione con gli altri.
Il discorso del diavolo è seducente perché ti promette un’esistenza facile, ma in lotta continua con gli altri, destinata al’isolamento e alla morte spirituale. Cristo invece non ti promette un’esistenza facile, ma attraverso le difficoltà quotidiane si può arrivare alla vita vera che vince la morte. Appare chiaro come molte persone si possano lasciare trarre in inganno dalla felicità illusoria proposta da satana. Questo può accadere in un primo momento, ma anche quando ci si rende conto della verità, l’orgoglio impedisce di ammettere gli errori e di ritornare a Cristo.
 Nel salmo 18 (19) versetto 14, dove si chieda a Dio:
Anche dall'orgoglio salva il tuo servo
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile,
sarò puro dal grande peccato.

Come la vita si trova scegliendo di aderire alla bandiera di Cristo, allo stesso modo è bene per l’uomo seguire la speranza invece che l’angoscia e la paura questa è una scelta che l’uomo deve rinnovare ogni giorno.

mercoledì 15 aprile 2015

Grati e santi



Essere santi vuol dire essere grati.
La gratitudine è il punto di partenza per il cammino della santità, la condizione indispensabile. Questo è evidente nel principio e fondamento degli esercizi spirituali di S. Ignazio:
«[23] L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l'uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l'uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo.»
Nel principio e fondamento si ringrazia a partire dal creato che Dio ci ha donato e di cui dovremmo essere custodi. L’essere creati è il principio della santità, perchè è la prima cosa per cui ringraziare.
Non essere grati vuol dire non essere aperti all’altro come dono che si accoglie, al massimo lo si vede come una persona da aiutare e non come un dono per cui essere grati e quindi da amare.

mercoledì 1 aprile 2015

Fragilità e resurrezione

Si deve tenere conto della fragilità dell’esperienza umana, infatti essa ha un limite ontologico: la morte e tutte le malattie che non possono essere guarite. Ad esempio le malattie croniche  possono essere curate, ma non estirpate. La malattia cronica può essere considerata simile alla morte, perché con essa si entra in un’altra vita completamente diversa e non si può tornare indietro. Anche in questa esperienza può esservi dunque la possibilità di risorgere.
La malattia si può vivere bene o male, come una condanna, una disgrazia, oppure si può accettarla fino ad arrivare alla scoperta che proprio in quella condizione  si può trovare un punto di vista privilegiato. Tutti questi modi di vedere la malattia  non si escludono a vicenda, ma possono convivere o succedersi l’uno all’altro e proprio in questa alternanza di sentimenti può manifestarsi una resurrezione, un passaggio dalle tenebre alla luce, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita. Per chi vive la malattia, la resurrezione non è quindi uno stato raggiunto, ma è piuttosto un lavoro continuo su sé stessi, che non avviene automaticamente. E’ un dono che deve essere coltivato con pazienza nel tempo.


Buona Pasqua a tutti!

giovedì 19 marzo 2015

Comprendere per combattere
 “Il male non esiste per essere compreso, ma per essere combattuto”. Se questa frase di L. Boff viene estremizzata e isolata dal contesto, come avviene nel libro di Greshake Il prezzo dell’amore(p.18), finisce per rappresentare la mentalità secondo cui il male deve essere soltanto combattuto e non può essere compreso o diventare oggetto di riflessione e di preghiera. Secondo me, se prima non ci sono una riflessione sul dolore o un percorso di preghiera, non si può neanche arrivare a combattere il male. Un esempio di questa necessità di comprendere il male per poterlo curare o combattere può essere il mio andare a terapia, certamente ci vado per  star meglio, ma soprattutto perché come cristiano cattolico credo nel’incarnazione: se Dio si è incarnato vuol  dire che il corpo è importante e io devo prendermi cura di esso. Quindi la sofferenza deve essere prima compresa e collocata al suo posto, poi si può lottare cercando di alleviarla. Avere cura del proprio corpo e cercare di migliorare per quanto è possibile la propria condizione fisica è senz’altro un diritto e un impegno che qualsiasi persona con deficit dovrebbe avere. Il corpo è il luogo di ogni possibile relazione con gli altri, in quanto è ciò che ci rende immediatamente visibili, ciò che mette in contatto con il mondo esterno, e in questo sta l’importanza di una corporeità vissuta con responsabilità e con amore.

mercoledì 11 marzo 2015



Life has no spare
 In realtà per fortuna nella vita non è proprio così: Dio è bravissimo a trovare le ruote di scorta e a farti andare avanti anche dopo che hai forato. Se non fosse così, uno che sbaglia non avrebbe altre possibilità e a quel punto potrebbe solo accettare passivamente le cose che accadono. Anche nella visione di un non credente esiste una ruota di scorta, solo che è fornita dalla natura o comunque da un fato, soltanto in una visione molto cinica e pessimista si può pensare “life has no spare”. Questa idea per cui nella vita non si può recuperare niente, per cui un errore non si può rimediare è sicuramente più tipica della mentalità protestante, in cui l’uomo è solo davanti a un Dio che lo giudica; mentre nella religione cattolica esiste il sacramento della confessione che permette sempre di ripartire. La religione cattolica non esclude mai nessuno e questa è la sua forza, in fondo proprio Gesù da l’ esempio nel perdonare ; ma è anche la sua debolezza perché con questa scusa a volte si fanno dei compromessi e non si chiede al peccatore di convertirsi e di cambiare vita.
Questa possibilità di ripartire anche dai propri errori e dai propri fallimenti è il messaggio del salmo 117 “la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”: queste pietre sono tutti i nostri insuccessi, noi cerchiamo di scartarli mentre è proprio con questi che Dio costruisce la nostra vita.




mercoledì 25 febbraio 2015

Contempl-azione
Come dicevo nel precedente post, quando la persona si chiude in se stessa il cuore si ammala.  La guarigione del cuore non richiede di concentrarsi o agire su un unico organo o su una singola parte dell’essere umano. Per curare, sia a livello fisico, sia a livello spirituale si  può agire su altri aspetti o altri organi, come, ad esempio; per rilassare i muscoli di una mano bisogna partire dalle spalle, così anche a livello spirituale, l’ uomo è un organismo unitario per cui per curare una parte si può partire da un’ altra.  Non si deve contrapporre la preghiera o contemplazione alle opere di misericordia. Nel’ episodio raccontato dal vangelo di Luca, in cui Gesù viene invitato da Marta e Maria nella loro casa, Marta si mette subito a lavorare per preparare, mentre la sorella sta ad ascoltare le sue parole. Questo atteggiamento delle due sorelle è stato interpretato da molti padri della chiesa come la distinzione tra “vita attiva” e “vita contemplativa” e il fatto che Gesù rimproveri Marta è stato visto come la superiorità della contemplazione sul’ azione. Gesù non la rimprovera perché serve, ma perché si angustia per servire. Gesù prende ad esempio Maria non perché non serva, ma perché prima ascolta la parola. Sono due facce della stessa medaglia.  Il punto è che Marta  si sente ancora una serva, mentre Maria si sente amica di Gesù.

Bisogna ripristinare l’integrità tra l’azione e la contemplazione altrimenti si rischia di fermarsi: se si agisce senza contemplare alla fine non si hanno più le motivazioni per continuare ad agire, allo stesso modo se si contempla senza una prospettiva di azione, si finisce per impazzire o per chiudersi in se stessi.

sabato 14 febbraio 2015


Cuore
Oggi giorno di San Valentino, comunemente conosciuto come la giornata in cui si celebra “la festa degli innamorati” il cuore è al centro di tutti i discorsi. E anche io oggi voglio parlare di cuore, si, ma a modo mio. La persona umana ha molte dimensioni ma un unico centro che nella Bibbia viene chiamato “cuore”.
Si potrebbe parlare di abilità o disabilità del “cuore”, inteso come l’insieme del vedere, giudicare e agire propri della persona. Dal cuore dell’uomo vengono tutti i mali, e anche tutti i beni.
Nella Bibbia per “cuore” non si intende tanto un organo o una parte della persona, quanto la persona nel suo intendere e reagire con tutto il suo essere, in senso olistico. I puri di cuore sono le persone integre, capaci di agire come unità.
È a partire da questo centro unitario che i vangeli parlano per analogia di ciechi, sordi … Chi ha orecchie e non sente, chi ha occhi e non vede ecc.
Salmo 114
4 Gli idoli delle genti sono argento e oro,
opera delle mani dell'uomo.
5 Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
6 hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
7 Hanno mani e non palpano,
hanno piedi e non camminano;
dalla gola non emettono suoni.
Sia come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida.

La condizione descritta dal salmista richiama quasi tutte le disabilità fisiche infatti parla di tutte le parti del corpo. Colpisce l’analogia tra gli idoli e le diverse disabilità: “sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” fa comprendere come il vero disabile è chi non ricerca Dio.

Proprio questa è la disabilità del cuore, questo non vedere e non sentire, non ammettere che si ha bisogno degli altri, della relazione con gli altri, dell’amore degli altri.

mercoledì 21 gennaio 2015

Una inquieta speranza

L’esperienza del comunismo ha influenzato anche il pensiero teologico degli anni’60, come mostra il dibattito tra il filosofo marxista E.Bloch e il teologo J.Moltmann, sul significato della speranza nella vita umana.
La speranza è la ragion d’ essere  dell’uomo, come dimostra Moltmann che, rispondendo alle tesi di Ernst Bloch, arriva a fare un elogio e un’analisi molto approfondita di questa caratteristica umana.
Secondo Moltmann l’uomo è uomo in quanto spera, in quanto è l’essere proiettato verso il futuro, che non si accontenta mai del proprio presente. Moltmann contrappone il peccato originale, che è peccato d’orgoglio, al peccato contemporaneo che è la perdita della speranza. Tuttavia si può vedere una relazione di causa-effetto tra queste due realtà. Infatti quando l’uomo, dopo aver mangiato il frutto proibito, si scopre nudo prendendo così coscienza della sua creaturalità, comincia a comportarsi come gli altri animali andando a nascondersi tra gli alberi e perdendo ciò che lo differenziava da tutte le altre creature, cioè la speranza.
Moltmann riconosce a Bloch il merito di avere riportato alla luce il «principio speranza» come dimensione fondamentale nell’esistere e nell’agire umano, ma lo critica per non essere stato coerente fino in fondo e per aver creduto che un certo tipo di società perfettamente pacificata secondo l’ utopia di Marx potesse rappresentare il fine di ogni speranza.
Quand’anche l’uomo riuscisse a realizzare tutti i suoi desideri di giustizia e di pace e costruisse un mondo perfetto, si troverebbe alla fine a fare i conti con la propria fragilità e con la propria morte che lo costringerebbe a sperare ancora in una vita eterna.

Fragilità e speranza sono quindi indissolubilmente collegate nell’inquietudine che le comprende entrambe. “ Per te ci hai creati e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. ( Agostino, Le confessioni 1.1)

mercoledì 14 gennaio 2015

L'handicap del capitale

La parola “handicap” deriva da un’espressione inglese “mano nel cappello” (hand-in-cap)ed era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il termine fu poi usato nelle corse ippiche per indicare lo svantaggio dato ai cavalli più forti perché anche i più deboli avessero possibilità di vincere.
Handicap significa quindi “svantaggio”, ma un conto è un impedimento al più forte, creato per generare uguaglianza, un altro è lo svantaggio del più debole.
Con la prima Rivoluzione industriale il termine venne adottato per indicare le persone che non erano adatte, per qualsiasi motivo, a lavorare nelle industrie. Il termine “handicap” era molto generico, comprendeva tutte le disabilità fisiche o psichiche che impedivano il lavoro. E’ evidente che nel primo capitalismo si veniva valutati solo in base a ciò che si produceva.
Oggi il criterio attraverso cui si valutano le persone è il consumo e si è scoperto che anche le persone disabili e gli anziani, sono dei consumatori che hanno bisogno di prodotti speciali spesso tecnologicamente avanzati.
Da quando certe categorie sono divenute potenziali consumatrici non vengono  più emarginate così apertamente come in passato, ma sono occultamente sfruttate come tutte le altre.
Questa interpretazione della persona come potenziale consumatrice è però riduttiva e non potrà reggere a lungo perché è una delle cause dell’attuale crisi economica e dei valori. Credere infatti che l’uomo possa continuare a consumare prodotti sempre nuovi per rispondere a bisogni indotti, è in realtà un’illusione.

Dal punto di vista filosofico considerare la persona come una eterna consumatrice, porta prima o poi a vedere l’uomo come oggetto del consumo e non più come soggetto. In questo anche ogni morale laica rischia di crollare, perché l’uomo è considerato solo un mezzo e non un fine, come raccomandava l’imperativo categorico kantiano: "Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo." (La fondazione della metafisica dei costumi, 1785)

mercoledì 7 gennaio 2015

Com'io potea tener lo viso asciutto?

Quando una persona vede qualcuno che soffre nel corpo  o in una sua parte, lo compatisce pensando di essere molto più fortunato. La compassione è una caratteristica propria dell’essere umano e ha radici molto profonde.
Un esempio del compatire proprio dell’uomo è offerto nella Divina Commedia, quando Dante incontra, nell’ottavo cerchio, gli indovini che per contrappasso sono condannati a camminare con la testa o col busto rivolto all’indietro.
            
“Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
 di tua lezione, or pensa per te stesso
com'io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
 le natiche bagnava per lo fesso.”

Dante si rivolge al lettore quasi per chiedere la sua solidarietà, perché non riesce proprio a non commuoversi, è una visione troppo forte per non piangere.
Egli sa bene che quelli sono peccatori che meritano la punizione, ne ha già visti altri anche con condanne peggiori, eppure questa lo colpisce particolarmente: vedere un corpo contorto e in una posizione innaturale lo sconvolge.
Non è una questione di violenza fisica; ad esempio la punizione di Farinata, costretto a stare per l’eternità in una bara rovente (canto X degli eretici), è un supplizio molto peggiore. Eppure Dante con lui non si commuove anzi arriva addirittura ad uno scontro, mentre la visione dei corpi degli indovini lo rattrista a tal punto da farlo piangere.
Da un punto di vista razionale, però, questo pianto non è motivato; infatti sarà Virgilio stesso a rimproverarlo per questa debolezza.

“Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand'è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?”

(19-30, Inferno, canto XX, Divina Commedia)


Dante non mette in dubbio la giustizia di Dio, ma per lui l’impatto è comunque troppo forte. Si può affermare che per il poeta la punizione degli indovini rappresenta la distorsione dell’uomo in quanto immagine di Dio e questa è una visione che lo scuote in profondità suscitando in lui compassione.