mercoledì 26 novembre 2014

Ricchi e poveri

La contrapposizione tra ricchi e poveri sembra un dato di fatto sempre esistito infondo anche Gesù diceva “beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio” e.... “guai a voi che ora siete sazi,perché avrete fame” (Luca 6, 20. 25). Egli aiutava sia i ricchi che i poveri, ha fatto miracoli anche per il centurione e lo ha esaltato per la sua fede, prendendolo ad esempio.
 I poveri non sono quelli manchevoli soltanto economicamente, il testo greco usa il termine che significa “mendicante”.
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.” (Matteo 5, 3), alla lettera sarebbe “beati i mendicanti dello spirito”, coloro che sentendo la mancanza dello spirito lo cercano.
Anche i ricchi piangono e possono trovarsi in difficoltà e in ricerca. Sono molti i casi che la cronaca continuamente ci propone di suicidi di personaggi famosi che apparentemente non mancavano di nulla,ad esempio l’ attore americano Robin Williams che era famoso per la sua simpatia contagiosa si è tolto la vita senza un motivo evidente.
Anche i poveri possono cadere nella falsa idea che la ricchezza sia la soluzione di tutti i loro problemi e quindi, per sopravvivere e ottenere la ricchezza, scegliere la strada più facile.
 “L'essere umano non ha solo fame di pane , di beni materiali, ma anche di bellezza, di comunicazione, di amore di solidarietà. E questi valori sono presenti soprattutto tra i poveri. Se c'è una cosa che i poveri proteggono è la cultura della solidarietà, l'allegria di vivere con il poco che hanno”. (Boff) 

mercoledì 19 novembre 2014

Assunzione

Prima di tutto una persona disabile deve affrontare il grande problema dell’accoglienza o meno della propria disabilità. Io però, a questo proposito, preferisco parlare di assunzione. Dopo un percorso di fede durato alcuni anni, ho deciso di assumere la mia condizione di deficit e la responsabilità della situazione in cui mi trovo, anche se non l’ho scelta io. Certamente in questo cammino sono stato aiutato dalla fede e dal fatto che i miei genitori mi avevano accolto veramente, al momento giusto.
Benché io sia portatore di un deficit fisico, non sono portatore di un deficit di accoglienza e se i portatori di deficit sono definiti «meno fortunati», io da questo punto di vista mi ritengo una persona fortunata.
In questa situazione ho potuto molte volte accogliere nuove persone. Devo dire che in generale preferisco socializzare e avere nuovi amici e amiche piuttosto che supporti tecnici o mezzi elettronici che mi mettano in condizione di fare il più possibile da solo. Così sono sempre stato in relazione con gruppi di amici con i quali svolgo attività comuni: con uno scrivo articoli, con un altro leggo libri, con un altro ancora guardo film e ognuno di loro è importante e diverso.
Ritengo sia un dono essere fatto così, lo vivo come una grazia, in questo sento l’amore concreto di Dio.
Attualmente ho due operatori stranieri, dei quali uno parla molto stentatamente l’italiano. Ho imparato ad accogliere anche questo tipo di deficit linguistico, che per me è molto difficile, perché quando il mio operatore non mi capisce, per me è un problema... Ma con il tempo abbiamo imparato ad accoglierci reciprocamente.

Il rapporto tra una persona disabile e il suo operatore è molto complesso, ha aspetti professionali ed altri quasi di intimità. Perciò funziona bene quando c’è una buona relazione personale e questo vuol dire accogliersi a vicenda. A entrambi conviene avere pazienza, adattarsi alle lentezze e alle difficoltà dell’altro. Il mestiere dell’operatore è molto particolare, non è soltanto un «badante»! Ed essere una «persona assistita» è pure una faccenda complessa, anche se non è riconosciuta come mestiere. Per una persona disabile, lasciarsi assistere è una operazione complessa. Dico tutte queste cose per far capire che il rapporto di accoglienza non è a senso unico.

mercoledì 12 novembre 2014

La vita tra le dita

Letteralmente abile significa “maneggevole”, è una parola che rimanda all’azione di tenere qualcosa nella mano. Se la mano non è capace di tenere un oggetto che le scivola e cade, oppure se lo tiene con troppa forza per poterlo usare efficacemente, diciamo che è disabile.
Ora pensiamo invece alla capacità di “maneggiare” la nostra vita. Che significa “Prendi la vita nelle tue mani”? Sentiamo che la nostra presa è troppo debole, o forse troppo forte? La vita ci scivola via, o la teniamo così stretta da soffocarla? Dal punto di vista della vita – che è il punto di vista più ampio che possiamo avere – che
 cosa sono l’abilità e la disabilità?
In un certo senso l’homo vivens è sempre disabile. L’uomo vivente, infatti, è anche l’uomo mortale, tra le due c
ose non c’è differenza. Noi possiamo avere una bella presa, ma un certo scivolare via, da parte della vita, è inevitabile. Non a caso le persone che invecchiano accumulano acciacchi che sono piccole o grandi disabilità. Invecchiare è considerato più “normale” che essere disabili, ma la vecchiaia è molto simile alla disabilità. Nella misura in cui l’anziano perde autonomia, diciamo che non ha più in mano il controllo della sua vita, o anche che gli resta poco da vivere.
Questo scivolarci della vita tra le mani è una “disabilità normale”. È una disabilità perché non riusciamo a tenere in mano questo “oggetto”. Ed è normale perché è così per tutti.
Un esempio di questa “disabilità normale” lo troviamo ne Il dialogo della Divina provvidenza:

« Io distribuisco le virtù tanto differentemente, che non do tutto ad
ognuno, ma a chi l’una a chi l’altra. [...] A chi darò principalmente la
carità, a chi la giustizia, a chi l’umiltà, a chi una fede viva. [...] E così
ho dato molti doni e grazie di virtù, spirituali e temporali, con tale diversità,
che non tutto ho comunicato ad una sola persona, affinché voi
foste costretti ad usare carità l’uno con l’altro. [...] Io volli che l’uno
avesse bisogno dell’altro e tutti fossero miei ministri nel dispensare le
grazie e i doni da me ricevuti ».
(Santa Caterina da Siena, Il dialogo della Divina provvidenza, 7, G. Cavallini
Roma 1995, p. 23-24.)

La cosa più importante che evidenzia Santa Caterina è che Dio ha voluto la diversità e la dipendenza dall’altro. Avere bisogno non deve essere sentito come una disgrazia, ma come arricchimento reciproco.

Dio considera normale questa dipendenza dagli altri, Santa Caterina infatti sottolinea proprio che Dio ha voluto questa caratteristica per costringere l’uomo a relazionarsi con il suo prossimo. Questo bisogno è l’aspetto che fa più paura nella disabilità. 

mercoledì 5 novembre 2014

La vera unità

«Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.» (1 Ts 5,23)

Leggendo le parole di Paolo possiamo chiederci che cosa unisca corpo, anima e spirito. Ciò che lega le diverse parti che compongono l’essere umano non è nel singolo individuo, ma è fuori di lui. Ciò che unisce è ciò che si vive, quello di cui ci prendiamo cura, ciò che amiamo. Tutti prima di essere soggetti attivi capaci di prendersi cura degli altri e di amare, dobbiamo fare esperienza di essere amati, deve esserci qualcuno che si prende cura di noi.
Ciò che unisce è dunque l’amore, ma inteso nel senso più ampio, quello che comprende tutti i vari aspetti.
Che cos’è l’amore?
C’è una differenza tra eros e agape: eros è una ricerca di perfezione umana, è l’uomo che è spinto da un desiderio, da una mancanza. Cerca qualcosa di perfetto, qualcosa che non abbia quei difetti che l’uomo ha ontologicamente. Quindi l’eros è un movimento dal basso verso l’alto.
Nella filosofia greca il punto culminante di questa concezione dell’eros è nella teoria aristotelica del motore immobile, che proprio perché perfetto attira tutto a sé, ma non può uscire da se stesso, è il pensiero che pensa a sè stesso. Nella tradizione ebraico- cristiana Dio è invece un Dio che decide di stare con l’uomo, di occuparsi di lui, di crearlo e di amarlo anche se è imperfetto o meglio proprio perché imperfetto: questa è la dimensione dell’amore come agape.
Eros e agape sono come due facce della stessa medaglia, è importante che ci siano tutte e due nella nostra esistenza: eros come spinta verso l’alto e verso la perfezione, agape come amore di ciò che è imperfetto e che si cerca di perfezionare.
Si può dire dunque che ciò che lega spirito, anima e corpo è proprio l’unione di eros e agape.
Per indicare questa unione si può usare la parola philia, amicizia, perché l’amicizia comprende sia l’aspetto dell’amore come spinta verso l’alto, sia la dimensione dell’amore come aiuto verso il prossimo, ovvero sia l’eros che l’agape.

«[…]E nella povertà e nelle altre sfortune (δυστυχίαις) gli uomini pensano che l’unico rifugio siano gli amici. Essa (l’amicizia) poi aiuta i giovani a non commettere errori, i vecchi a trovare assistenza e ciò che alla loro capacità d’azione viene a mancare a causa della debolezza, ed infine, coloro che sono nel fiore dell’età [15] a compiere le azioni moralmente belle: "Due che marciano insieme...", infatti, hanno una capacità maggiore sia di pensare sia di agire[...]» (Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VIII cit.1 da http://www.ousia.it/)

In questa citazione è presente il concetto di amicizia sia come eros che come agape.
Secondo Aristotele l’amicizia è un marciare insieme. Questa immagine è molto significativa e comprende sia l’aiuto reciproco, sia lo star bene con l’altro. L’aiuto è proprio dell’agape, mentre lo stare insieme è proprio dell’eros.
Anche quando si parla dell’amicizia che aiuta i giovani e i vecchi nelle loro specifiche debolezze e difficoltà, è implicito il concetto dell’agape. Quando invece si parla di chi è nel pieno delle forze si dice che l’amicizia aiuta a compiere azioni moralmente belle; essa in questo caso è la spinta al bello propria dell’eros.
Prendersi cura dell’altro è contemporaneamente sia un segno di amicizia che di amore, nessuno può distinguerle nettamente.