mercoledì 21 gennaio 2015

Una inquieta speranza

L’esperienza del comunismo ha influenzato anche il pensiero teologico degli anni’60, come mostra il dibattito tra il filosofo marxista E.Bloch e il teologo J.Moltmann, sul significato della speranza nella vita umana.
La speranza è la ragion d’ essere  dell’uomo, come dimostra Moltmann che, rispondendo alle tesi di Ernst Bloch, arriva a fare un elogio e un’analisi molto approfondita di questa caratteristica umana.
Secondo Moltmann l’uomo è uomo in quanto spera, in quanto è l’essere proiettato verso il futuro, che non si accontenta mai del proprio presente. Moltmann contrappone il peccato originale, che è peccato d’orgoglio, al peccato contemporaneo che è la perdita della speranza. Tuttavia si può vedere una relazione di causa-effetto tra queste due realtà. Infatti quando l’uomo, dopo aver mangiato il frutto proibito, si scopre nudo prendendo così coscienza della sua creaturalità, comincia a comportarsi come gli altri animali andando a nascondersi tra gli alberi e perdendo ciò che lo differenziava da tutte le altre creature, cioè la speranza.
Moltmann riconosce a Bloch il merito di avere riportato alla luce il «principio speranza» come dimensione fondamentale nell’esistere e nell’agire umano, ma lo critica per non essere stato coerente fino in fondo e per aver creduto che un certo tipo di società perfettamente pacificata secondo l’ utopia di Marx potesse rappresentare il fine di ogni speranza.
Quand’anche l’uomo riuscisse a realizzare tutti i suoi desideri di giustizia e di pace e costruisse un mondo perfetto, si troverebbe alla fine a fare i conti con la propria fragilità e con la propria morte che lo costringerebbe a sperare ancora in una vita eterna.

Fragilità e speranza sono quindi indissolubilmente collegate nell’inquietudine che le comprende entrambe. “ Per te ci hai creati e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. ( Agostino, Le confessioni 1.1)

mercoledì 14 gennaio 2015

L'handicap del capitale

La parola “handicap” deriva da un’espressione inglese “mano nel cappello” (hand-in-cap)ed era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il termine fu poi usato nelle corse ippiche per indicare lo svantaggio dato ai cavalli più forti perché anche i più deboli avessero possibilità di vincere.
Handicap significa quindi “svantaggio”, ma un conto è un impedimento al più forte, creato per generare uguaglianza, un altro è lo svantaggio del più debole.
Con la prima Rivoluzione industriale il termine venne adottato per indicare le persone che non erano adatte, per qualsiasi motivo, a lavorare nelle industrie. Il termine “handicap” era molto generico, comprendeva tutte le disabilità fisiche o psichiche che impedivano il lavoro. E’ evidente che nel primo capitalismo si veniva valutati solo in base a ciò che si produceva.
Oggi il criterio attraverso cui si valutano le persone è il consumo e si è scoperto che anche le persone disabili e gli anziani, sono dei consumatori che hanno bisogno di prodotti speciali spesso tecnologicamente avanzati.
Da quando certe categorie sono divenute potenziali consumatrici non vengono  più emarginate così apertamente come in passato, ma sono occultamente sfruttate come tutte le altre.
Questa interpretazione della persona come potenziale consumatrice è però riduttiva e non potrà reggere a lungo perché è una delle cause dell’attuale crisi economica e dei valori. Credere infatti che l’uomo possa continuare a consumare prodotti sempre nuovi per rispondere a bisogni indotti, è in realtà un’illusione.

Dal punto di vista filosofico considerare la persona come una eterna consumatrice, porta prima o poi a vedere l’uomo come oggetto del consumo e non più come soggetto. In questo anche ogni morale laica rischia di crollare, perché l’uomo è considerato solo un mezzo e non un fine, come raccomandava l’imperativo categorico kantiano: "Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo." (La fondazione della metafisica dei costumi, 1785)

mercoledì 7 gennaio 2015

Com'io potea tener lo viso asciutto?

Quando una persona vede qualcuno che soffre nel corpo  o in una sua parte, lo compatisce pensando di essere molto più fortunato. La compassione è una caratteristica propria dell’essere umano e ha radici molto profonde.
Un esempio del compatire proprio dell’uomo è offerto nella Divina Commedia, quando Dante incontra, nell’ottavo cerchio, gli indovini che per contrappasso sono condannati a camminare con la testa o col busto rivolto all’indietro.
            
“Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
 di tua lezione, or pensa per te stesso
com'io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
 le natiche bagnava per lo fesso.”

Dante si rivolge al lettore quasi per chiedere la sua solidarietà, perché non riesce proprio a non commuoversi, è una visione troppo forte per non piangere.
Egli sa bene che quelli sono peccatori che meritano la punizione, ne ha già visti altri anche con condanne peggiori, eppure questa lo colpisce particolarmente: vedere un corpo contorto e in una posizione innaturale lo sconvolge.
Non è una questione di violenza fisica; ad esempio la punizione di Farinata, costretto a stare per l’eternità in una bara rovente (canto X degli eretici), è un supplizio molto peggiore. Eppure Dante con lui non si commuove anzi arriva addirittura ad uno scontro, mentre la visione dei corpi degli indovini lo rattrista a tal punto da farlo piangere.
Da un punto di vista razionale, però, questo pianto non è motivato; infatti sarà Virgilio stesso a rimproverarlo per questa debolezza.

“Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand'è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?”

(19-30, Inferno, canto XX, Divina Commedia)


Dante non mette in dubbio la giustizia di Dio, ma per lui l’impatto è comunque troppo forte. Si può affermare che per il poeta la punizione degli indovini rappresenta la distorsione dell’uomo in quanto immagine di Dio e questa è una visione che lo scuote in profondità suscitando in lui compassione.