Prima di tutto una persona disabile deve affrontare il
grande problema dell’accoglienza o meno della propria disabilità. Io però, a
questo proposito, preferisco parlare di assunzione. Dopo un percorso di fede durato
alcuni anni, ho deciso di assumere la mia condizione di deficit e la
responsabilità della situazione in cui mi trovo, anche se non l’ho scelta io.
Certamente in questo cammino sono stato aiutato dalla fede e dal fatto che i
miei genitori mi avevano accolto veramente, al momento giusto.
Benché io sia portatore di un deficit fisico, non sono
portatore di un deficit di accoglienza e se i portatori di deficit sono
definiti «meno fortunati», io da questo punto di vista mi ritengo una persona
fortunata.
In questa situazione ho potuto molte volte accogliere nuove
persone. Devo dire che in generale preferisco socializzare e avere nuovi amici
e amiche piuttosto che supporti tecnici o mezzi elettronici che mi mettano in
condizione di fare il più possibile da solo. Così sono sempre stato in
relazione con gruppi di amici con i quali svolgo attività comuni: con uno
scrivo articoli, con un altro leggo libri, con un altro ancora guardo film e
ognuno di loro è importante e diverso.
Ritengo sia un dono essere fatto così, lo vivo come una
grazia, in questo sento l’amore concreto di Dio.
Attualmente ho due operatori stranieri, dei quali uno
parla molto stentatamente l’italiano. Ho imparato ad accogliere anche questo
tipo di deficit linguistico, che per me è molto difficile, perché quando il mio
operatore non mi capisce, per me è un problema... Ma con il tempo abbiamo
imparato ad accoglierci reciprocamente.
Il rapporto tra una persona disabile e il suo operatore è
molto complesso, ha aspetti professionali ed altri quasi di intimità. Perciò
funziona bene quando c’è una buona relazione personale e questo vuol dire
accogliersi a vicenda. A entrambi conviene avere pazienza, adattarsi alle
lentezze e alle difficoltà dell’altro. Il mestiere dell’operatore è molto
particolare, non è soltanto un «badante»! Ed essere una «persona assistita» è
pure una faccenda complessa, anche se non è riconosciuta come mestiere. Per una
persona disabile, lasciarsi assistere è una operazione complessa. Dico tutte
queste cose per far capire che il rapporto di accoglienza non è a senso unico.
Grazie Stefano, sono in sintonia con te perché anch'io per certi aspetti vivo questa esperienza dell'accoglienza ed è arricchente al massimo!
RispondiEliminaCiao Stefano,
RispondiEliminaleggendo questo post ho ricordato il tuo sguardo accogliente, poi ho ripreso l'immagine che hai scelto per questo blog e ho pensato che è davvero bella perché lo svela proprio, almeno per me che l'ho conosciuto nel passato.
Seppure in poche parole hai reso bene anche la difficoltà dell'essere "assistiti" che è tutt'altro dell'essere badati. C'è questa dimensione di intimità necessaria che ribalta le carte del gioco, che mette in campo molto di più della persona che non un mero servizio.
Ti ringrazio di queste parole che mi richiamano personalmente ad una dimensione di rapporto non solo mediata, un abbraccio
Lucia
Cara Giovanna,
RispondiEliminagrazie per il tuo commento, io penso che accogliersi significa arricchirsi a vicenda.
Cara Lucia,
RispondiEliminasono molto contento che la nostra amicizia sia rifiorita attraverso questo blog. Tu hai commentato tutti i miei post. Come dici tu essere assistiti non è un semplice essere badati, perché implica instaurare un rapporto di solidarietà, quasi di amicizia, ed è una solidarietà reciproca. Come ogni rapporto anche quello dell' assistenza comporta dei rischi, è una scommessa.